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Di  Justin Thomson, Tomasz Wieladek, Ph.D.
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Un'analisi dei dazi: storia, teoria e scenari futuri

Come orientarsi in un'epoca di crescenti barriere commerciali

Giugno 2025, Dal campo

Punti essenziali
  • Il confronto tra libero scambio e protezionismo dura da oltre due secoli. L'era dei dazi bassi iniziata dopo la Seconda guerra mondiale sembra ormai giunta al termine.
  • I dazi generano vincitori e vinti. Per le piccole economie rappresentano una perdita secca; per i paesi più grandi, dazi “ottimali” possono generare benefici economici.
  • Sebbene storicamente i dazi non abbiano avuto un impatto rilevante sui rendimenti delle diverse asset class, nel breve termine possono creare rischi e opportunità di cui gli investitori devono tenere conto.

La guerra dei dazi avviata da Donald Trump rappresenta la fase più recente di una lunga contrapposizione tra due filosofie economiche: il protezionismo e il libero scambio. In oltre tre secoli di scambi commerciali documentati, il pendolo ha oscillato tra queste due visioni, influenzato dalle teorie economiche dominanti, dalla forza persuasiva della politica e dal livello di sviluppo delle singole nazioni.

Sebbene le barriere commerciali possano assumere anche la forma di quote, embarghi o regolamentazioni, i dazi rappresentano da sempre lo strumento privilegiato per modulare i flussi commerciali. Nel corso del tempo il loro utilizzo ha conosciuto fasi alterne di maggiore o minore popolarità, con variazioni nei livelli applicati, nella durata, nelle modalità di attuazione e nel grado di specificità. In questo articolo ci soffermiamo sulla storia e sulle teorie alla base dei dazi, per poi analizzarne le implicazioni nel contesto attuale.

La storia

Le origini dei dazi statunitensi

I dazi hanno fortemente segnato la storia dello sviluppo economico degli Stati Uniti nel XIX secolo e nei primi decenni del XX. Fecero la loro comparsa con il Tariff Act del 1828, pensato per proteggere l'emergente settore manifatturiero del New England e degli Stati nord-orientali (in particolare nei comparti tessile e siderurgico) dalla concorrenza delle importazioni a basso costo provenienti dal Regno Unito. Il provvedimento venne ribattezzato Tariff of Abominations dai suoi oppositori negli Stati del Sud, che lo accusavano di far lievitare i costi di produzione e di ostacolare l'accesso ai mercati esteri per le aziende agricole meridionali. Alcuni Stati minacciarono la secessione dall'Unione e queste tensioni tra interessi economici furono un fattore che contribuì alla Guerra civile americana.

Nei decenni successivi alla Guerra civile, il pendolo si spostò verso un sistema basato su dazi elevati. Industriali e rappresentanti politici serrarono i ranghi a favore del protezionismo, convinti che la tutela delle fabbriche nazionali rappresentasse la strada maestra verso la prosperità economica. Questo consenso post-bellico si tradusse in una serie di interventi legislativi: il McKinley Tariff Act del 1890 portò i dazi a sfiorare il 50%, mentre il Dingley Tariff Act del 1897 li spinse ancora più in alto, superando tale soglia. I dazi venivano presentati come un dovere patriottico. La logica era semplice: limitare le importazioni a basso costo significava creare le condizioni per lo sviluppo del capitale e dell'occupazione negli Stati Uniti. Un credo che richiamava le parole di Abraham Lincoln: “Dateci un dazio protettivo, e faremo della nostra la più grande nazione della Terra.”

Questo periodo di dazi elevati coincise in effetti con una vera e propria età dell'oro per l'economia statunitense. La produzione conobbe un'espansione senza precedenti, l'economia si sviluppò verso i territori dell'Ovest e la nazione venne attraversata da una rete ferroviaria realizzata con acciaio prodotto sul suolo americano. Innovazioni come l'illuminazione elettrica e le macchine agricole alimentarono forti guadagni di produttività, e gli Stati Uniti superarono il Regno Unito, affermandosi come prima economia industriale mondiale.

Tuttavia, è fondamentale contestualizzare. In quanto potenza emergente, gli Stati Uniti non disponevano ancora della massa critica necessaria per competere con le economie industriali europee già affermate, che dovevano essere in qualche modo ostacolate per consentire all'economia statunitense di crescere. In questo senso, i dazi si rivelarono uno strumento efficace in una fase molto particolare dello sviluppo statunitense. Si trattava inoltre di un'epoca in cui una parte significativa della crescita economica era trainata dall'espansione verso Ovest. Un aspetto cruciale da considerare è che, in un contesto in cui l'imposta sul reddito non esisteva e in cui il peso dello Stato nell'economia in rapporto al PIL era inferiore al 10%, i dazi costituivano oltre la metà delle entrate del Tesoro statunitense.

”Agli inizi del Novecento si diffuse una crescente consapevolezza delle ricadute negative associate a dazi eccessivamente elevati.”
Justin Thomson, Head of the T. Rowe Price Investment Institute

Agli inizi del Novecento si diffuse una crescente consapevolezza delle ricadute negative associate a dazi eccessivamente elevati. Nel 1913, l'Underwood Tariff Act ridusse l'aliquota media dei dazi dal 40% al 25% e fu accompagnata dal Revenue Act, che introdusse un'imposta permanente sul reddito: un'aliquota compresa tra l'1% e il 7% per le persone fisiche, e una flat tax dell'1% per le società. Con l'introduzione di un'imposta permanente sul reddito come fonte di entrate, i dazi persero gradualmente centralità nel dibattito politico.

Dazi e Grande Depressione

Tuttavia, la storia economica raramente segue un percorso lineare. La Prima guerra mondiale, gli anni ruggenti e infine la Grande Depressione modificarono profondamente il quadro delle politiche commerciali. Le istanze protezionistiche tornarono a farsi sentire, culminando nel più tristemente celebre provvedimento della storia americana dei dazi: lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930 che innalzò i dazi a livelli senza precedenti, innescando un'ondata di ritorsioni da parte dei principali partner commerciali degli Stati Uniti. Le cause della Grande Depressione sono complesse e molteplici, ma appare certo che lo Smoot-Hawley Tariff Act abbia rappresentato un fattore determinante.

Anche la reazione delle altre nazioni ebbe un ruolo fondamentale. I dazi di ritorsione innescarono quella che viene spesso definita come la “spirale della morte di Kindleberger”: un periodo prolungato e persistente di deglobalizzazione. Si tratta di un monito chiaro contro un nazionalismo economico mal concepito, la cui lezione fondamentale è che in una guerra commerciale in continua escalation, alla fine perdono tutti.

Negli anni successivi le amministrazioni statunitensi che si sono succedute hanno ridotto i dazi e promosso il libero scambio. Questa tendenza ha preso avvio con il Reciprocal Trade Agreements Act, promulgato nel 1934 dal presidente Franklin D. Roosevelt, che gli conferiva l'autorità di negoziare riduzioni bilaterali dei dazi su base reciproca. Fu l'inizio di un processo di graduale smantellamento del protezionismo a livello globale (Figura 1). L'accordo, inizialmente concepito con una durata triennale, venne prorogato da successive amministrazioni fino al 1962, quando il Trade Expansion Act, voluto da John F. Kennedy, conferì al presidente il potere di ridurre i dazi fino al 50% nell'ambito di negoziati commerciali multilaterali.

Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale ha visto un boom del commercio

(Fig. 1) Volumi del commercio mondiale nel tempo
The post-World War II era saw a trade boom

Dati a dicembre 2023.
Fonti: Federico e Tena-Junguito (Centre for Economic and Policy Research, 2016); Jorda, Schularick, e Taylor (National Bureau of Economic
Research, 2017); Banca Mondiale; e T. Rowe Price.

Nel tempo questa dinamica ha condotto a una progressiva riduzione dei dazi, fino alla creazione dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), che oggi funge da organismo di risoluzione delle controversie tra Stati membri. Per decenni il mantra dominante nelle politiche economiche internazionali è stato che il commercio globale non solo favorisce la diffusione del benessere nelle economie in via di sviluppo, ma contribuisce anche alla stabilità geopolitica dato che le democrazie orientate al libero scambio tendono a non entrare in conflitto tra loro. L'impegno degli Stati Uniti verso questa visione ha sostenuto un'espansione significativa degli accordi di libero scambio, sia a livello internazionale, attraverso l'OMC, sia a livello regionale, come dimostrano la nascita del Mercato Comune Europeo e, successivamente, dell'Unione Europea.

La teoria

Il libero scambio crea vincitori e vinti

Che il libero scambio conduca a un aumento del benessere è una delle prime lezioni apprese nei corsi introduttivi di economia. Tuttavia, la realtà è ben più complessa: se è vero che il libero scambio può generare benefici complessivi, è altrettanto vero che tali benefici non si distribuiscono in modo uniforme, come hanno dimostrato negli anni Trenta gli economisti Eli Heckscher e Bertil Ohlin, con una teoria che è valsa a quest'ultimo il premio Nobel per l'economia.

“Se è vero che il libero scambio può generare benefici complessivi, è altrettanto vero che tali benefici non si distribuiscono in modo uniforme...”
Tomasz Wieladek, Chief European Economist

Nel modello di Heckscher-Ohlin, che analizza il caso di due economie, l'economia avanzata è caratterizzata da un'abbondante dotazione di capitale ma da una relativa scarsità di manodopera. La situazione è opposta nel paese in via di sviluppo, che dispone di una forza lavoro abbondante ma ha una dotazione limitata di capitale. Con l'apertura al libero scambio, l'economia avanzata importa beni ad alta intensità di manodopera e i salari nei settori che li producono tendono a diminuire. Parallelamente, i salari nei settori ad alta intensità di capitale aumentano, poiché questo tipo di produzione diventa relativamente più richiesto.

Persino una teoria di base come quella di Heckscher-Ohlin prevede, come effetto del libero scambio, un aumento delle disuguaglianze di reddito nelle economie avanzate. Al contrario, nei paesi in via di sviluppo la distribuzione del reddito tende a migliorare. Questo semplice schema consente di interpretare alcuni sviluppi significativi del commercio internazionale negli ultimi vent'anni:

  • l'uscita dalla povertà di miliardi di persone nei mercati emergenti,
  • il declino del settore manifatturiero a elevata intensità di lavoro nei paesi sviluppati, e
  • l'aumento delle disuguaglianze di reddito nelle economie avanzate.

La globalizzazione consente di ampliare la ricchezza economica complessiva, ma affinché tutti possano beneficiarne a livello individuale, è necessario che i guadagni vengano redistribuiti. In pratica, però, attuare meccanismi di redistribuzione mirati a compensare i perdenti della globalizzazione si rivela particolarmente complesso. Le differenze tra i sistemi di welfare nazionali - in termini sia di copertura sia di generosità - fanno sì che i lavoratori statunitensi siano stati relativamente più penalizzati dal libero scambio rispetto alle loro controparti europee. Di conseguenza, negli Stati Uniti, i lavoratori impiegati nei settori più esposti alla concorrenza internazionale tendono a sostenere politiche volte a frenare la globalizzazione.

Di fatto, ogni volta che i partner commerciali degli Stati Uniti hanno superato in determinati settori le controparti statunitensi, ne è scaturita una risposta politica. Questa dinamica ha avuto inizio con il presidente Nixon, che nei primi anni '70 decise di sganciare il dollaro dall'oro e introdusse dazi del 10% con l'obiettivo di preservare la competitività dei prodotti americani. Successivamente, durante l'amministrazione Reagan, furono negoziate restrizioni volontarie all'export con il Giappone, in particolare nel settore automobilistico, con il risultato che alcune case giapponesi delocalizzarono parte della produzione direttamente negli Stati Uniti.

Le politiche del presidente Trump rappresentano la manifestazione più recente di questa reazione politica ricorrente. L'ingresso della Cina nell'OMC e la sua rapida integrazione nell'economia globale hanno generato probabilmente uno dei maggiori shock negativi della storia per il settore manifatturiero statunitense, accelerando il processo di deindustrializzazione in numerosi Stati federati. Ne è derivata una risposta politica più decisa rispetto ai decenni precedenti. Le politiche commerciali dell'amministrazione Trump incarnano una forma di politica della rabbia, in risposta all'impatto dell'iper-globalizzazione sull'industria manifatturiera americana.

I cicli di globalizzazione e il loro impatto

Gli effetti di lungo periodo della globalizzazione sono evidenti: consentendo ai paesi di specializzarsi in ciò che sanno fare meglio, essa contribuisce ad espandere la ricchezza economica. La globalizzazione permette inoltre di attenuare gli effetti più marcati del ciclo economico, offrendo ai paesi la possibilità di esportare per compensare una contrazione della domanda interna, o di importare per rispondere a un eccesso di domanda. Questo meccanismo consente di prolungare le fasi espansive del ciclo e, al tempo stesso, di contenere le pressioni inflazionistiche. Di fatto, la globalizzazione ha rappresentato uno dei fattori chiave alla base dei tassi di inflazione contenuti e stabili registrati nella maggior parte delle economie sviluppate negli ultimi vent'anni (Figura 2).

Il libero scambio ha contribuito a domare l'inflazione globale

(Fig. 2) Dispersione dell'inflazione globale CPI1 nel tempo
Free trade helped tame global inflation

Dati a dicembre 2020.
1 CPI = Consumer price index (Indice dei prezzi al consumo).
Fonti: Jorda, Schularick e Taylor (National Bureau of Economic Research, 2017); Banca Mondiale; e T. Rowe Price.

I recenti rialzi dell'inflazione negli Stati Uniti sono stati con ogni probabilità il risultato degli stimoli fiscali e monetari adottati per sostenere la domanda, che hanno finito per surriscaldare l'economia in un momento in cui la pandemia di coronavirus aveva provocato gravi interruzioni nelle catene di approvvigionamento globali. In altre parole, l'unica vera pausa della globalizzazione negli ultimi decenni è coincisa con un'inflazione generata da un eccesso di domanda interna. Ciò non significa che non siano intervenuti altri fattori rilevanti, né che l'inflazione sarebbe rimasta del tutto stabile in assenza delle disfunzioni logistiche. Tuttavia, è plausibile ritenere che, se le catene di fornitura avessero continuato a operare regolarmente, l'inflazione avrebbe raggiunto un picco più contenuto e si sarebbe ridimensionata più rapidamente.

Il ruolo della globalizzazione nel controbilanciare shock macroeconomici specifici a livello nazionale implica che i cicli economici tendano sempre più a essere guidati da fattori globali. Inoltre, il peso dell'economia statunitense in quanto consumatore di ultima istanza ha favorito una crescente convergenza dei cicli economici di molti altri paesi con quello degli Stati Uniti (Figura 3). Poiché i mercati azionari e obbligazionari internazionali mostrano una crescente sincronizzazione nei movimenti, diventa sempre più cruciale selezionare le aziende giuste in cui investire, piuttosto che concentrarsi sulla scelta del paese.

La globalizzazione ha favorito la convergenza del ciclo economico

(Fig. 3) Deviazione standard del PIL mondiale nel tempo
Globalization has promoted business cycle convergence

Dati a dicembre 2024.
Fonti: Jorda, Schularick e Taylor (National Bureau of Economic Research, 2017); Banca Mondiale; e T. Rowe Price.

La teoria dei dazi ottimali e i suoi insegnamenti

Per le economie di piccole dimensioni, prive di potere di mercato sufficiente a influenzare i prezzi globali, l'imposizione di dazi comporta in genere una perdita secca, perché i produttori esteri riescono facilmente a trasferire l'aumento dei costi sui consumatori finali. Lo stesso effetto si verifica anche nelle economie più grandi quando i dazi colpiscono beni che non vengono prodotti a livello nazionale, come, ad esempio, nel caso delle calze importate dalla Cina. Tuttavia, se il dazio viene applicato su un bene non essenziale e per il quale esiste una produzione interna alternativa, i produttori esteri possono essere costretti ad assorbire parte o l'intero costo del dazio per mantenere competitivi i prezzi, riducendo così il loro margine senza incidere direttamente sui consumatori locali.

“Per le economie di piccole dimensioni, prive di potere di mercato sufficiente a influenzare i prezzi globali, l'imposizione di dazi comporta in genere una perdita secca...”
Justin Thomson, Head of the T. Rowe Price Investment Institute

Gli economisti definiscono “dazio ottimale” l'aliquota che preleva il massimo dai produttori esteri senza provocare un rincaro dei prezzi per i consumatori. Per gli Stati Uniti il dazio ottimale con ogni probabilità non è pari a zero, ma dipende dal prodotto. Alcuni beni essenziali - come le calze provenienti dalla Cina - non possono essere prodotti a prezzi competitivi sul mercato interno. Poiché la domanda di calze è relativamente anelastica, l'intero ammontare del dazio può essere trasferito sui consumatori. Al contrario, le auto di lusso possono essere prodotte in modo competitivo negli Stati Uniti. Inoltre, la domanda di automobili è più elastica rispetto al prezzo, il che significa che i produttori sono più propensi ad assorbire l'impatto del dazio comprimendo i propri margini di profitto.

Il concetto di dazio ottimale ha implicazioni rilevanti per la politica commerciale statunitense. Prima o poi un'amministrazione statunitense arriverà a definire con maggiore precisione quale sia il livello ottimale per un determinato dazio. Del resto, uno degli obiettivi dichiarati della nuova politica commerciale è quello di prelevare reddito dai produttori esteri per finanziare la spesa pubblica interna. Considerata la dimensione del mercato statunitense, è probabile che il dazio ottimale non sia pari a zero, ma sensibilmente superiore. Questo lascia presumere che anche le future amministrazioni manterranno verosimilmente almeno una parte dei dazi L'epoca in cui gli Stati Uniti riducevano i dazi per incentivarne il calo globale sembra ormai tramontata.

E arriviamo così al presente. Considerata la complessità dei temi in gioco e la tendenza dell'amministrazione Trump ad adottare cambiamenti di politica improvvisi, è probabile che l'incertezza legata ai dazi persista ancora per un po'. Tuttavia, il nostro scenario di base prevede che l'aliquota media applicata ai beni importati negli Stati Uniti si attesterà sopra il 10%, un livello sensibilmente più elevato rispetto a quello registrato durante l'era che abbiamo definito di iper-globalizzazione (Figura 4). In altri termini, stiamo attraversando una fase di deglobalizzazione.

I dazi statunitensi sono destinate ad aumentare di almeno diverse volte

(Fig. 4) Dazi statunitensi dal 1821
U.S. tariffs are poised to rise by at least several multiples

Dati a gennaio 1 2025.
1 Il tasso di presostituzione si riferisce al tasso prima delle modifiche comportamentali e presuppone un tasso tariffario UE “reciproco” del 50%.
2 Il tasso post-sostituzione si riferisce al tasso dopo gli aggiustamenti di mercato e presuppone l'eliminazione di tutte le tariffe IEEPA del 2025..
Fonti: Jorda, Schularick e Taylor (National Bureau of Economic Research, 2017); Banca Mondiale; e T. Rowe Price.

Il rischio è che il mondo ricada nella trappola di Kindleberger. è sempre più facile aumentare i dazi che concludere accordi commerciali. I primi offrono benefici immediati ma costi nel lungo termine; per i secondi vale l'opposto. Inoltre, gli accordi commerciali sono notoriamente difficili da far rispettare, e le pressioni della politica interna finiscono quasi sempre per generare comportamenti opportunistici. Gli incentivi, dunque, tendono a favorire il protezionismo più che il libero scambio. Tuttavia, se esiste una potenza globale disposta a sostenere il libero scambio a prescindere dalle circostanze, e se esistono istituzioni credibili in grado di far rispettare le regole come l'OMC allora queste barriere naturali alla globalizzazione possono essere superate. In assenza di questi due elementi, il rischio è che il mondo ricada facilmente nella trappola di Kindleberger, caratterizzata da attriti commerciali persistenti e da un progressivo disfacimento della globalizzazione.

Per evitare che questo scenario si concretizzi, un'altra grande potenza commerciale globale dovrebbe farsi avanti e assumere la guida nella difesa del libero scambio. I due candidati più evidenti sono la Cina e l'Unione Europea. Tuttavia, molti paesi restano diffidenti nei confronti della Cina per ragioni geopolitiche, mentre la leadership europea procede con lentezza nell'attuazione di politiche di libero scambio, a causa delle difficoltà legate alla necessità di trovare un accordo tra 27 Stati membri. Naturalmente, le politiche statunitensi potrebbero cambiare nuovamente nel giro di quattro anni. Nel frattempo, però, il rischio di un periodo prolungato di deglobalizzazione, paragonabile a quello vissuto negli anni Trenta, non è mai stato così alto da quasi un secolo.

Scenari futuri

Implicazioni tattiche e strategiche dei dazi nel contesto attuale

La peculiarità delle guerre commerciali è che generano contemporaneamente shock dal lato della domanda e dell'offerta, producendo impulsi al tempo stesso inflazionistici e recessivi. In questo scenario un approccio difensivo appare appropriato. Ma cosa significa oggi “difensivo”? Abbiamo osservato alcuni cambiamenti nei profili di performance ed è quindi importante comprendere perché e in che modo le asset class tradizionalmente difensive stiano evolvendo.

Sebbene i Treasury statunitensi rappresentino storicamente una copertura efficace contro i rischi azionari e di credito in fase recessiva, si sono dimostrati meno affidabili come strumento di diversificazione nei contesti di correzioni trainate dall'inflazione. Allo stesso modo, il dollaro statunitense è storicamente considerato il bene rifugio per eccellenza nei periodi di tensione sui mercati, ma in occasione dei recenti cali legati ai dazi ha mostrato un andamento sorprendentemente fiacco. Non è chiaro se l'indebolimento del dollaro rifletta una temporanea sfiducia nelle scelte politiche statunitensi o se sia il segnale di un'inversione a lungo termine nei flussi di capitale globali. L'oro e il franco svizzero continuano a essere percepiti come beni rifugio “autentici”, ma la quantità di capitale allocabile in tali asset non è illimitata.

La storia suggerisce che le questioni legate ai dazi hanno, nel complesso, un impatto limitato sull'asset allocation strategica. Il Global Investment Returns Yearbook 2025, recentemente pubblicato e basato su 125 anni di dati di mercato, mostra che nel periodo considerato i rendimenti azionari sono stati molto solidi, quelli obbligazionari nella media, mentre la liquidità (buoni del Tesoro) ha registrato le performance più modeste. Storicamente non si osservano deviazioni significative in questi profili di rendimento nemmeno nei decenni caratterizzati da dazi elevati. In altre parole, non vi sono prove che i dazi, di per sé, abbiano compromesso i rendimenti azionari reali.

Tuttavia, questa sintesi rischia di semplificare eccessivamente il quadro. Ogni nuovo paradigma economico presenta sia opportunità che sfide, e non vi è alcuna garanzia che l'attuale fase di dazi elevati si riveli analoga a quelle del passato. Alla luce di tutto ciò, ecco 10 spunti che riteniamo gli investitori dovrebbero tenere presenti.:

  1. Cicli asincroni Con il progressivo allungamento e la maggiore stabilità dei cicli economici nazionali, e la loro crescente convergenza con quelli degli Stati Uniti, i rendimenti dei mercati azionari presentano una minore dispersione. La gestione patrimoniale si è orientata sempre più verso l'individuazione delle aziende globali più solide, piuttosto che sulla scelta del paese in cui investire. Tuttavia, in un contesto di de-globalizzazione, i benefici della diversificazione per area geografica potrebbero tornare a essere più evidenti. I cicli economici potrebbero accorciarsi e diventare più bruschi, man mano che si attenua la cosiddetta “grande moderazione”.
  2. Divergenze nei tassi d'inflazioneNell'era della globalizzazione, l'inflazione persistentemente bassa e stabile ha permesso alle banche centrali di abbassare gradualmente i tassi d'interesse. La globalizzazione ha quindi probabilmente contribuito al lungo ciclo rialzista delle obbligazioni sovrane. L'integrazione commerciale ha permesso ai paesi con una notevole capacità produttiva inutilizzata di rispondere alla domanda di quelli che consumavano stabilmente più di quanto producessero. Con minori scambi commerciali, i primi potrebbero essere esposti a pressioni deflazionistiche più marcate, mentre i secondi potrebbero subire un'inflazione più elevata. In tale scenario, i rendimenti obbligazionari potrebbero aumentare nei secondi e calare nei primi.
  3. Bilancia dei pagamentiL'obiettivo dichiarato dei dazi imposti dall'amministrazione Trump è in parte di natura strutturale, con l'intento di ridurre il disavanzo delle partite correnti degli Stati Uniti (costituito principalmente dal disavanzo commerciale). Tuttavia, la riduzione del disavanzo della bilancia dei pagamenti richiederà una contrazione corrispondente dell'avanzo delle partite finanziarie (trainato principalmente dai flussi di portafoglio verso azioni e obbligazioni, dagli investimenti diretti esteri e dai prestiti e flussi di capitale bancario). Due possibili conseguenze negative di questo processo potrebbero essere una minore liquidità in dollari USA e un calo dei flussi di capitale verso gli asset statunitensi.
  4. Riorientamento dei flussi commerciali. Non è la fine del commercio globale per come lo conosciamo, ma i modelli di scambio cambieranno, e in questo processo ci saranno vincitori e vinti. Se dazi più elevati porteranno a una riduzione dei volumi commerciali complessivi, la storia suggerisce che gli asset dei mercati emergenti - debito, azionario e valute - saranno tra i principali penalizzati. Le piccole economie aperte ne usciranno indebolite; al contrario, i paesi con un ampio mercato interno, dove la domanda interna rappresenta almeno il 70% della domanda totale, dovrebbero reggere meglio. L'India è un esempio di questa seconda categoria; anche il Brasile potrebbe rientrarvi. Nel lungo periodo, gli investitori dovrebbero aspettarsi che la Cina acceleri il proprio riposizionamento verso la domanda interna come principale motore di crescita.
  5. L'Europa deve affermare il proprio ruoloIl cambiamento nell'atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti delle storiche alleanze in materia di sicurezza ha reso necessaria una revisione strategica. Lo sblocco del freno al debito tedesco ha rappresentato un momento cruciale. Con un certo ritardo, questa nuova postura dovrebbe tradursi in un aumento della spesa per la difesa, maggiori investimenti infrastrutturali e un incremento dei finanziamenti a livello regionale.
  6. Intermediazione. Il grande, ma inattivo, bacino di risparmi in liquidità in Europa deve essere mobilitato. Che si tratti di una “unione dei mercati”, di un consolidamento del settore bancario europeo o di un rafforzamento della struttura patrimoniale delle imprese tramite capitale proprio, questo processo potrebbe stimolare l'interesse per i mercati azionari europei e migliorarne i rendimenti.
  7. Disintermediazione.Il valore delle valute fiat esiste solo in virtù della fiducia nella politica economica dei governi e nella credibilità delle banche centrali nel mantenere l'inflazione sotto controllo. Con i disavanzi commerciali che si trasformano in deficit di fiducia, la svalutazione del dollaro statunitense (valuta di riserva globale) potrebbe spingere il settore privato a disintermediare, ovvero ad allontanarsi dai canali ufficiali rappresentati da banche centrali e governi. Se il motore è la sfiducia, le criptovalute rappresentano il mezzo. Un simile scenario costituirebbe un forte stimolo per lo sviluppo delle criptovalute e delle tecnologie blockchain.
  8. Chi ha guadagnato di più ha anche di più da perdereLe multinazionali statunitensi, in particolare i colossi tecnologici, sono state tra i principali beneficiari della globalizzazione, ma sono anche tra i soggetti più esposti. I margini di profitto delle aziende statunitensi, rimasti stabili per decenni, hanno iniziato a salire negli anni '90 con l'accelerazione della globalizzazione, e hanno registrato un'ulteriore impennata a partire dal 2000, dopo l'ingresso della Cina nell'OMC. Non si tratta di una semplice coincidenza. Progettare un iPhone è un'attività ad alto valore aggiunto, alta marginalità e bassa intensità di capitale; produrlo è un'attività a bassa marginalità e ad alta intensità di capitale. Per le multinazionali statunitensi, esternalizzare le catene di approvvigionamento e la produzione verso fornitori esteri a basso costo è stata una scelta strategicamente vantaggiosa. Tuttavia, con l'aumento dell'intensità di capitale, è probabile che la redditività del capitale diminuisca. L'era della redditività “straordinaria” delle imprese statunitensi potrebbe volgere al termine.
  9. Vendere hubris, comprare umiliazione. Le espressioni “eccezionalismo americano” e la successiva “fine dell'eccezionalismo americano” sono entrambe delle iperboli. Tuttavia, il premio per il rischio sugli asset statunitensi è in aumento, e una riallocazione parziale del capitale verso altre aree appare probabile.
  10. Principali rischi di coda.Nonostante l'accordo raggiunto all'inizio di maggio, persiste il rischio che lo stallo sui dazi tra Stati Uniti e Cina possa degenerare in una guerra dei capitali, in cui la Cina abbandoni il proprio regime di cambio controllato e l'economia globale si divida in due sistemi monetari distinti. Everybody loses.
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UK—Il presente materiale è distribuito e approvato da T. T. Rowe Price International Ltd, Warwick Court, 5 Paternoster Square, Londra EC4M 7DX, società autorizzata e regolamentata dalla Financial Conduct Authority, l'autorità di vigilanza del Regno Unito. Riservato ai clienti professionali.

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